mercoledì 24 novembre 2010

veglia

Si chiamava Matteo e aveva una fassura tra i denti davanti che ci sarebbe potuto passare il rio delle amazzoni.
Avevo sedici anni e con la mia migliore amica ci piaceva andare alle inaguarazioni di una certa galleria d'arte di isola immobile, la cui proprietaria è sepolta in giardino insieme ai suoi cani.
Quando avevo otto anni mia mamma mi raccontò di come il "male misterioso" che aveva ucciso sua figlia fosse una cosa chiamata anoressia, facendomi notare che uno dei cani portava il suo stesso nome.
Io e la migliore amica avevamo bevuto un numero eccessivo di prosecchini (probabilmente non piu' di tre, beata gioventu') e ci aggiravamo con fare circospetto per il giardino, notando i ragazzi carini e le vecchiette ridicole.
Il nostro prof. di francese non mancava mai a queste occasioni, accompagnato dalla sua morosa del momento: quella sera era una bionda con la bocca piena di lucidalabbra rosa.
Matteo aveva diciannove anni e una giacca di pelle, nonostante facesse già caldo.
Stava parlando con un altro ragazzo ma si vedeva che era li' da solo.
Forse annusai quella sensazione di essere fuori luogo che avevamo in comune, fatto sta che mandai la migliore amica a pararlargli mentre io, vigliacca e meschina come al solito, mi nascondevo dietro ad una scultura fatta di specchi.
Pochi minuti piu' tardi io, Matteo e la migliore amica eravamo distesi nella stanza di Jackson Pollock, ubriachi e stupidi.
Da quella sera ogni volta che entro in quella stanza devo condividere con qualcuno l'anneddoto che raccontai a Matteo: "Lo sai che a Jackson Pollock mancava un dito della mano destra?".
Lui fu probabilmente colpito dalla mia conoscenza dell'arte moderna, perchè qualche ora piu' tardi, nel buio dell'unico cinema di Isola Immobile, mi mise il braccio intorno alle spalle.
Il giorno dopo mi offri' un caffè, e io lo accettai volentieri perchè mi vergognavo di dirgli che io il caffè non lo bevevo mai, che dopo non dormivo la notte, come i bambini.
Per il mese successivo io e Matteo ci incontrammo silenziosamente, anche se parlavamo per ore e ore seduti su un portone di quella che adesso è una galleria d'arte.
Anche lui era nato a luglio, il diciasette.

Ero a Barcellona quando sulla chat di facebook qualcuno mi scrisse che Matteo era morto, quasi un anno prima, di leucemia.
Io, che non sapevo cosa fare, scrissi una mail a sua madre, che proprio quel giorno compiva gli anni, per la prima volta senza Matteo. A Barcellona non mi divertii per niente e l'amica che ero andata a trovare mi disse che la mia malinconia la metteva di cattivo umore e non piaceva ai suoi amici. In Danimarca, in Isalnda e poi qui in Scozia, il pensiero di Matteo sali' con me in tutti gli aerei, i treni e le macchine che in quel mese e mezzo ospitarono me e il mio zaino troppo pesante.
Quando tornai in Italia andai ad una messa in onore di Matteo e quando il prete disse "scambiatevi un gesto di pace" io mi girai e davanti a me trovai Marco, l'unico suo amico che avessi mai conosciuto.
Lui e la migliore amica avevano avuto una piccolo flirt, giusto per solidarietà, e quando mi vide in quella chiesa scoppiò a ridere, e io con lui.
Il giorno dopo presi un caffè con la mamma di Matteo in un bar affacciato su una delle piazze piu' belle d'Europa, il cielo di un azzurro intenso e il mare a pochi passi.
"Il tempo era cosi' bello anche l'anno scorso, mentre Matteo si stava spegnendo in una camera d'ospedale".
Avrei voluto dirle che si era sbagliata, che io non meritavo la sua attenzione, che io e Matteo ci eravamo solo baciati su un portone per un mese e mezzo quattro anni prima, ma lei sapeva tutto di me, Matteo le aveva raccontato, e io non ci potevo credere di poter dare un pò di sollievo ad una madre che aveva appena perso un figlio.
Non me lo meritavo, un ruolo cosi' importante.

Vi potrei raccontare di come lui fosse il suo unico figlio, di quanto fossero legati, amici e confidenti oltre che madre e figlio.
Vi potrei dire che solo due settimane separavano Matteo dal suo ventitreesimo compleanno, e che quel diciasette luglio lui si sarebbe dovuto anche laureare.
Potrei forse cercare di spiegare a me stessa come questa cosa che mi è successa abbia cambiato la mia vita in tanti modi, il mio modo di guardare il mondo, cercando di usare anche gli occhi di Matteo.
Però la verità è che non ci capisco niente, di come funziona l'universo, la gente, il mio cervello.


G.

martedì 2 novembre 2010

News dall'undicesimo piano

Scrivo ora dall'undicesimo piano di una biblioteca che di piani in totale ne ha dodici.
Sono circondata da entrambe le parti da studenti asiatici più o meno concentrati sul proprio lavoro (la ragazza alla mia sinistra sfoglia nervosamente le pagine di un libro da ormai alcuni minuti mentre il ragazzo alla mia destra smanetta felicemente sul cellulare).
Io dal canto mio cazzeggio alla grande, perchè alla fine questo so fare e questo faccio.

Se vi dicessi che ho passato l'ultima mezz'ora a leggere la storia di Micol, figlia di Saul e moglie di David, che poi è il mio secondo nome, anche se mia madre non si è certo ispirata alla bibbia ma a quella snob di Micol Finzi Contini, supremo esempio di "te-la-prometto-ma-non-te-la-do", voi dovreste crederci, perchè (tristemente) corrisponde al vero.
La vita procede, mi dicono, e io sono qui a G. da quasi due mesi (!).
Ho una stanza grande, grandissima, con la moquette rossa e le tende a fiori, un tavolo rotondo e delle sedie mezze rotte che ho raccattato dalla strada, in pieno spirito radical-chic-da-studente-finto-squattrinato.
Il mio appartamento è una specie di pensionato color crema, abitato da figure di kafkiana memoria, tutte dotate di un senso dell'igiene molto discutibile.
La padrona di casa è una vecchietta cipriota, mrs. anastasiou, che vive al numero 45 della stessa strada in una casetta dal giardino fiorito che suo marito comprò nel 1960, quando questa zona radical-chic-da-finto-studente-squattrinato era ben lontana dalla gentrificazione.

Al numero 29, nella casa giusto accanto alla mia, abita una simpatica combriccola di studenti vegani, o vegetariani, o semplicemente un pò frikkettoni, ma non troppo.
Alcuni di loro si dedicano alla dieta crudista, altri organizzano gruppi di acquisto solidale o serate improv o workshop per i figli dei detenuti.
Tra le stanze di questa colorata comune si aggira però un intruso più vicino ai 30 che ai 20 anni, che lavora dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 5 come pattern recognizer, anche se io per prenderlo in giro amo chiamarlo it guy.
Questo losco figuro è irlandese, e come tutti gli irlandesi ha 6 fratelli e 3 sorelle.
I suoi capelli non sono rossi ma neri e il suo secondo nome è David, come il marito di Micol.
(Solo io posso trovare similitudini del genere, tanto vale ammeterlo).

Io e il vicino di cui sto parlando fino ad un mese fa eravamo più o meno estranei, ci eravamo scambiati due parole in croce e nemmeno particolarmente profonde.
Poi il destino ci fece incontrare per caso ad un concerto di una band sconosciuta ad entrambi e non chiedetemi come o perchè, ma da quel giorno di inizio ottobre siamo più o meno inseparabili.

Io ancora fatico a credere che quello che fino a qualche mese fa stavo semplicemente imamginando ora sta succedendo davvero.
E non mi riferisco solamente al frangente amoroso, ma all'intera idea di avere una vita, in un paese lontano anni luce dall'isola immobile.
Conoscere gente, fare cose (senza esagerare, eh, non sia mai che io rinunci alla mia pigrizia) e vedere posti.

E' una strana sensazione, ma credo proprio di potermici abituare.

La vostra sempre meno teen problematica
G.